Caseificio Murceti
“Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o li stendeva, secondo gli riuscisse; e attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone…”
Così come nella vigna di Renzo, anche ai Murceti era tutta una rogaia.
Quando, quattordici anni fa, iniziai a comprare piccole proprietà per fare pascoli per le mie pecore, per andare da un campo all’altro bisognava passare in ginocchio sotto le siepi, in mezzo ai pruni e ai rovi; e proprio facendo questi percorsi cominciai a intravedere qua e là rimasugli di muretti, sentieri abbandonati, muri di capanne. Vedendo quei manufatti mi tornarono alla mente ricordi della mia infanzia: rividi piccoli campi coltivati, pollai, maiali, orti e soprattutto granturcai. Come si fa presto a dimenticare, o peggio, a rimuovere quel che non fa più parte della quotidianità, eppure la vita di generazioni di miei compaesani si sintetizzava in quelle cose. E sull’onda di questi ricordi mi è venuta voglia di vedere cosa ci fosse sotto quell’intrigo.
Ed ecco, piano piano, apparire ovunque muri a secco, in gran parte franati sotto l’azione dell’acqua che, si sa, fa come gli pare, schiantati dalle radici degli olmi e dei pruni, avvolti e divelti dalle vitalbe, distrutti dai cinghiali; e ancora terrazzamenti nei declivi più scoscesi; e in gran numero, in mezzo ai campi, murce di tutte le forme. E poi ad una ad una ecco venir fuori le capanne, molte delle quali mai censite; e quasi tutte con un particolare curioso: il padrone se n’era andato lasciando la chiave nel buco.
Non ci sto!
Me lo son detto più volte, non ci sto a perdere tutto, a perdere la possibilità di capire con quali sforzi e quanta tigna l’uomo ha creato questo paesaggio.
Duecento anni di lavoro per rubare terra ai sassi, per creare piccoli coltivi da destinare al granturco. Al posto di ogni schiaccia tolta dal campo si poteva ottenere anche un chilo di mais, che è già una bella polenta. E’ per mantenere questo ricordo, che poi diventa coscienza, consumata, oggi, dalla facilità di ottenere quello che si pensa di desiderare, coscienza che le cose non accadono per magia, per uno schioccar di dita ma si sviluppano grazie al lavoro, alla costanza, alla dedizione; coscienza testimoniata dalle grandi piante camporili, custodi silenziose dello svolgersi della vita, esse stesse allevate e curate dall'uomo, testimoni partecipi di questo lavoro di restauro che vuole intrecciare passato, presente e futuro.
Solo l’uomo può conservare un paesaggio disegnato dall’uomo, con le ragioni dell’oggi per non andarsene domani lasciando la chiave nel buco.
[cit. Questa bella d’erbe famiglia, Sinibaldo Ruffaldi, C&P Adver Effigi, 2003]
Da qui il nome Murceti, da qui la scelta del caseificio e delle pecore, di mantenerci piccoli per rispettare le leggi della natura e degli animali, per ricreare e mantenere il paesaggio; la scelta di vivere qui, in questo posto isolato, lontano dalla città, ma unico perché peculiare rispetto al resto del territorio toscano, per la sua altitudine e vicinanza al mare.
Le nostre pecore pascolano all'aperto in pascoli naturali ricchi di erba e fiori spontanei che danno il caratteristico odore e sapore al nostro Cacio di Murcia, artigianale ma fatto con metodologie moderne.